Indagine Isfol su integrazione degli immigrati tra politiche attive del lavoro e politiche sociali

Occupazione dei migranti: puntare su formazione, orientamento e consulenza

colori che si tengono per mano

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22.07.2011 - Marco Marucci, dell’area Risorse strutturali e umane dei sistemi formativi dell’Isfol, presenta i risultati dell’indagine “L’integrazione degli immigrati tra politiche attive del lavoro e politiche sociali: esperienze ed eccellenze di quattro regioni italiane”.

La ricerca, curata dallo stesso Marucci insieme a Claudia Montedoro, è frutto dell’elaborazione di diversi contributi prodotti da uno studio conclusosi nel maggio 2009, condotto all’interno del progetto “Monitoraggio degli interventi formativi e di orientamento, di integrazione tra le politiche attive del  lavoro e le politiche sociali”, promosso dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali – D.G. volontariato, Associazionismo e formazioni sociali (DIV. III Volontariato) e D.G. Immigrazione, nell’ambito delle azioni di sistema 2000 -2006 del PON – FSE ob. 3 Asse B – Misura B1- Azioni 1 e 2.

Quali sono le finalità che questo lavoro di ricerca si è posto come prioritarie?

Prima di tutto bisogna inquadrare il contesto di riferimento. Tra marzo e giugno 2009 è stata condotta un’analisi sugli interventi rivolti agli immigrati in alcune Regioni Ob.3 del Fondo sociale europeo programmazione 2000-2006. Nello specifico si è trattato di Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Lazio. L’obiettivo era quello di individuare i principali effetti prodotti dall’utilizzo del Fondo Sociale e selezionare alcune buone pratiche scelte in base al grado di innovazione dell’intervento, all’interdisciplinarietà degli approcci, all’integrazione tra le politiche socio-assistenziali e quelle attive del lavoro e al livello di coinvolgimento dei diversi soggetti partecipanti, ossia le amministrazioni pubbliche, il privato sociale e le imprese.

Quali sono i principali risultati emersi dall’indagine?

La nostra elaborazione ha evidenziato una sostanziale tendenza a diminuire gli investimenti nel sociale. I dati relativi al 2005 confermano come l’incidenza delle somme destinate ad “immigrati e nomadi” sia ancora relativamente bassa rispetto alla spesa generale per le politiche sociali. E’ indubbio, infatti, che la spesa sociale dei Comuni comprende quote importanti destinate a sanità e servizi, ma rivolte ad utenze indifferenziate. È molto plausibile dunque, che la discrezionalità degli Enti locali nell’allocare risorse abbia portato ad un utilizzo marginale delle stesse per interventi di integrazione, come per esempio, servizi sociali professionali e strutture residenziali destinate a migranti. Questo calo è stato però in parte compensato dall’aumento dell’utilizzo di strumenti finanziari europei. Secondo i dati provenienti da una mappatura delle “Partnership di sviluppo Geografiche” del Programma EQUAL, che riguarda progetti gestiti ed attuati all’interno delle singole Regioni dell’Unione, si è riscontrato come nella fase 2 di EQUAL, corrispondente al biennio 2004-2006, si sia verificato un significativo incremento di iniziative in tutte le Regioni d’interesse, confermato anche dal positivo trend nazionale. In particolare, l’Emilia Romagna e la Lombardia, presentano un’incidenza assoluta d’interventi a favore dei migranti, superiore a quella del Lazio e del Veneto.

Ci sono altri Fondi europei attivi in questo settore?
Bisogna segnalare, che dal 2007 è operativo il Fondo europeo per l’integrazione (FEI), promosso dalla Commissione come parte integrante della nuova programmazione 2007-2013. L’obiettivo generale del FEI è di sostenere le iniziative nazionali volte a gestire il fenomeno “multidimensionale dell’integrazione” aiutando persone di “culture, religioni, lingue e etnie differenti a prendere parte attiva in tutte i settori delle società europee”. Si prevede, quindi, l’integrazione imminente anche di questo strumento nella programmazione territoriale delle politiche di integrazione degli stranieri. Tale Fondo andrà a compensare la diminuzione di investimenti specifici nazionali, come ad esempio, l’azzeramento dal 2008, del Fondo per l’inclusione sociale.

Quali sono le principali differenze nelle strategie adottate dalle Regioni in tema di integrazione?
Alla luce delle considerazioni appena fatte sulla base dell’elaborazione dei dati in nostro possesso e attraverso l’analisi della passata programmazione FSE 2000-2006, condotta attraverso una rilettura dei Programmi Operativi Ragionali (POR), dei Complementi di Programmazione e dei Piani di Sviluppo Regionale, nonché sulle valutazioni intermedie e finali dei POR, possiamo delineare alcune caratteristiche per singole regioni riguardanti i differenti modelli d’intervento nel campo dell’integrazione sociale dei migranti.

Può entrare un po’ più nel merito, descrivendo in breve i vari tipi d’intervento?
Certamente, inizierei con la Regione Lombardia. Qui, il modello d’intervento è stato principalmente centrato sull’accesso ai servizi e alla promozione dell’individuo e della famiglia. Inoltre, le sperimentazioni di servizi rivolti alle donne e agli immigrati di seconda generazione è indice di un’attenzione ai temi dell’interculturalità e alla prevenzione di conflitti che l’assenza di una mediazione possono provocare.
L’Emilia Romagna ha posto invece l’attenzione sulla garanzia dei diritti di cittadinanza stimolando forme di partecipazione delle comunità e accessibilità dei servizi. Quest’approccio ha stimolato un’azione di ridisegno delle competenze dei servizi introducendo negli stessi nuove figure professionali in grado di garantire una mediazione culturale.
La Regione Lazio ha optato per una logica che potremmo definire “emergenziale”, soprattutto in ragione delle caratteristiche specifiche dei flussi migratori sulla città di Roma, che è un nodo di raccordo dei flussi “di passaggio”, spesso complicati da numerose situazioni di irregolarità. Quindi gran parte delle politiche e progetti presenti sul territorio laziale si sono concentrati sulla prima accoglienza.
Il Veneto, in virtù del suo alto tasso di occupazione rispetto al resto dell’Italia, ha sviluppato soprattutto iniziative volte al rafforzamento delle competenze professionali nel rispetto delle diversità. Come dichiarato nel Piano Regionale di Sviluppo (PRS), gli obiettivi principali sono stati quelli di “costruire una convivenza civile tra veneti ed immigrati”, anche rafforzando “programmi di accompagnamento all’integrazione che permettano allo straniero la conoscenza e la comprensione del nostro modello socioculturale”. La Regione Veneto ha inoltre privilegiato un approccio all’immigrazione come processo circolare, affiancando a politiche d’integrazione anche programmi di sostegno al rientro in patria, siano esse comunità di veneti residenti all’estero o immigrati interessati a ritornare nel loro paese. Questo approccio è stato legato alla convinzione che la mobilità dei lavoratori sia una risorsa dello sviluppo locale.

Alla luce dell’analisi svolta sull’utilizzo del Fondo Sociale Europeo e dei Fondi nazionali, quali sono le criticità da superare e le strategie da adottare nella Programmazione FSE 2007-2013 per integrare politiche attive e passive di inclusione sociale?
Dalle varie fonti consultate, emerge in modo trasversale la limitata rilevanza di progetti basati sullo sviluppo di percorsi di inserimento lavorativo: di norma le politiche attive mirano a rimuovere gli ostacoli alla partecipazione al mercato del lavoro, mentre, meno di frequente si affronta la questione di coinvolgere il singolo lavoratore in un percorso che contempli allo stesso tempo formazione, orientamento e consulenza. Va detto, che questo è il limite che si riscontra nella maggior parte degli interventi di sostegno al lavoro.
Nel caso dei lavoratori immigrati lo sviluppo di interventi integrati e centrati sulla persona è ostacolato anche dalla specificità del rapporto tra migranti e mercato del lavoro: la popolazione immigrata nella fase di ricerca del lavoro raramente si rivolge ai servizi per l’impiego, preferisce piuttosto usare canali informali, come il passa parola o ricorrere all’aiuto dei connazionali. Tali fenomeni producono una forte etnicizzazione professionale che il più delle volte sfocia in fenomeni di segregazione occupazionale; in altre parole una volta trovato lavoro attraverso le reti etniche e parentali risulta difficile cambiare tipo d’impiego; cioè, se il lavoratore straniero, appena giunto in Italia inizia con fare il muratore è difficile che riesca a spostarsi in un altro settore. Anche se descritti in modo sommario, questi meccanismi spiegano la concentrazione degli immigrati su posizioni professionali basse, corrispondenti ai “lavori che gli italiani non vogliono fare” e con poca, per non dire nessuna, prospettiva di crescita professionale.

Le donne, in via generale, sono state sempre considerate come una delle parti deboli del mercato del lavoro, a maggior ragione le immigrate risentono di questa difficoltà, cosa fare nella programmazione 2007-2013 per recuperare questa criticità?
Il tasso d’occupazione delle donne immigrate è superiore a quello delle italiane, tuttavia la presenza delle lavoratrici straniere non è omogenea rispetto ai comparti produttivi. I settori dove trovano più facilmente un’occupazione sono i servizi alla persona, il commercio e la ristorazione: tutti settori ad alta intensità di lavoro, in cui gli orari sono lunghi e ripetuti nella settimana. Sarebbe quindi opportuno cominciare a sviluppare interventi centrati sulla conciliazione piuttosto che sull’accesso al lavoro. Le immigrate di sesso femminile, oltre a quello lavorativo, spesso hanno anche un carico familiare da sostenere. Al di là delle soluzioni che verranno trovate, preme sottolineare che, nel periodo 2007-2013, l’immigrazione andrebbe considerata come una linea di programmazione a sé stante, un ambito di intervento al quale destinare un’attenzione specifica. L’Italia è da tempo una nazione multi-culturale ed è quindi necessario che le politiche assecondino questa dinamica, favorendo lo sviluppo di migliori condizioni di vita per i concittadini stranieri.

 

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