Intervista a Valentina Cardinali - Isfol
Speciale Ripartire dalle donne
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31.05.2011 - Valentina Cardinali, ricercatrice Isfol dell'Area Ricerche sui sistemi del lavoro e curatrice dello studio "Mercato del lavoro e politiche di genere 2009-2010. Scenari di un biennio di crisi", riflette sulle macro-dinamiche che caratterizzano l'occupazione femminile in Italia.
Che cosa si intende quando si parla di donne apparentemente al riparo dalla crisi?
“Apparentemente al riparo” perché i numeri dicono che i posti di lavoro persi dalle donne sono inferiori a quelli persi dagli uomini. Invece, nel complesso, le donne sono quelle su cui la crisi ha pesato e continua a pesare di più. Questi due anni hanno aggravato una situazione di per sé critica, che ancora al 2011 ci colloca al penultimo posto in Europa per occupazione femminile, precedendo solo Malta. Ci sono infatti problemi “strutturali” delle presenza delle donne sul mercato del lavoro che non possono essere imputabili alla congiuntura e che non giustificano facili ottimismi.
Per entrare più nel merito dell'argomento si può fare qualche esempio?
L’Italia – in media - non ha mai raggiunto gli obiettivi quantitativi di occupazione femminili richiesti dall’Europa. Ha sempre scontato forti divari territoriali tra nord e sud e ha costruito mercati del lavoro settoriali fortemente distinti per genere. Presenta stabilmente divari di genere in tutti gli indicatori del mercato del lavoro, che possono essere, a titolo esplicativo, riassunti in sei punti:
- a gennaio 2011 le donne occupate sono il 46,3%, gli uomini il 67,2 %. Le donne disoccupate il 9,8% contro il 7,8 % degli uomini. Ma il 70% di questa cifra - quindi della disoccupazione femminile - è al Sud, secondo un trend consolidato da almeno venti anni.
- La disoccupazione giovanile, al 30% è composta in netta prevalenza da giovani donne.
- Le donne che non lavorano e che non lo cercano nemmeno crescono costantemente, (sono al 48,8%), soprattutto al Sud. Si tratta di un effetto “scoraggiamento” che va contrastato.
- Seppur numericamente inferiori agli uomini in assoluto, le donne sono comparativamente più presenti nel mercato con contratti non standard e quindi meno tutelati, in tutti i settori, fasce di età e aree geografiche. Sono quindi la parte più debole della forza lavoro, come la crisi ha dimostrato, soprattutto dai 18 ai 29 anni.
- Le donne con figli hanno comunque più difficoltà a restare sul mercato del lavoro e 1 su 6 lascia il lavoro a seguito di una maternità, prevalentemente a causa di una scelta obbligata (assenza di strumenti di supporto alla cura o non accessibilità economica dei servizi disponibili). Questo trend non ha significative differenze territoriali: è più forte al centro nord dove le donne lavorano di più, è più sensibile al Sud dove le donne lavorano di meno. La situazione si fa più drammatica per quelle donne, tra i 30 e i 45 anni, che accanto a figli devono occuparsi anche di anziani o bisognosi – per i quali i servizi sono ancora più carenti o inaccessibili. Sono un segmento critico del mercato, una sandwich generation, schiacciata come in un panino da esigenze multiple di cura a cui l’attuale sistema di welfare non è in grado di rispondere.
- La precarietà dei non standard e delle donne che lavorano influisce su scelte di vita e di procreazione. In tutti i paesi europei in cui le donne lavorano si fanno più figli, mentre in Italia, a bassi tassi di partecipazione si associa il più basso tasso di natalità europea e la crescita demografica viene assicurata prevalentemente dalla componente straniera della popolazione.
A questo punto si può affermare che è questo lo scenario su è intervenuta la crisi?
Si ed ha avuto caratteristiche diverse a seconda dei mercati del lavoro regionali, della loro configurazione produttiva e quindi conseguentemente della presenza maggiore o minore delle donne in quegli ambiti. Ma in nessun caso si è trattato di eccezione alle regole prima esposte. L’ondata lunga della crisi, dopo aver colpito i settori industriali tipicamente maschili, ha investito poi il terziario dove invece è la presenza delle donne ad essere maggioritaria, con conseguenze ancora più negative. Due su tutte. Si tratta di settori e di dimensioni di impresa con una copertura parziale da parte degli ammortizzatori sociali ordinari e quindi molto dipendenti dalla deroga e dalla capacità di copertura finanziaria. Per i contratti atipici e flessibili, in cui le donne sono la maggioranza, inoltre, questa copertura è stata parziale. Laddove la disoccupazione è stata inevitabile, il tempo di permanenza nell’area del non lavoro per gli uomini è stato comunque più breve di quello delle donne. Quindi, le donne sono arrivate più tardi a perdere il lavoro, ma hanno più difficoltà a tornare sul mercato. E molte di loro, rischiano di non tornarvi più. Le cosiddette scoraggiate restano a casa, con probabile ingresso nel lavoro sommerso, soprattutto in quelle realtà in cui il secondo reddito diventa necessario al bilancio familiare, considerato il fatto che l’Italia è in Europa il paese con la più alta percentuale di uomini unici produttori di reddito familiare.
Che cosa si intende quando si parla di donne apparentemente al riparo dalla crisi?
“Apparentemente al riparo” perché i numeri dicono che i posti di lavoro persi dalle donne sono inferiori a quelli persi dagli uomini. Invece, nel complesso, le donne sono quelle su cui la crisi ha pesato e continua a pesare di più. Questi due anni hanno aggravato una situazione di per sé critica, che ancora al 2011 ci colloca al penultimo posto in Europa per occupazione femminile, precedendo solo Malta. Ci sono infatti problemi “strutturali” delle presenza delle donne sul mercato del lavoro che non possono essere imputabili alla congiuntura e che non giustificano facili ottimismi.
Per entrare più nel merito dell'argomento si può fare qualche esempio?
L’Italia – in media - non ha mai raggiunto gli obiettivi quantitativi di occupazione femminili richiesti dall’Europa. Ha sempre scontato forti divari territoriali tra nord e sud e ha costruito mercati del lavoro settoriali fortemente distinti per genere. Presenta stabilmente divari di genere in tutti gli indicatori del mercato del lavoro, che possono essere, a titolo esplicativo, riassunti in sei punti:
- a gennaio 2011 le donne occupate sono il 46,3%, gli uomini il 67,2 %. Le donne disoccupate il 9,8% contro il 7,8 % degli uomini. Ma il 70% di questa cifra - quindi della disoccupazione femminile - è al Sud, secondo un trend consolidato da almeno venti anni.
- La disoccupazione giovanile, al 30% è composta in netta prevalenza da giovani donne.
- Le donne che non lavorano e che non lo cercano nemmeno crescono costantemente, (sono al 48,8%), soprattutto al Sud. Si tratta di un effetto “scoraggiamento” che va contrastato.
- Seppur numericamente inferiori agli uomini in assoluto, le donne sono comparativamente più presenti nel mercato con contratti non standard e quindi meno tutelati, in tutti i settori, fasce di età e aree geografiche. Sono quindi la parte più debole della forza lavoro, come la crisi ha dimostrato, soprattutto dai 18 ai 29 anni.
- Le donne con figli hanno comunque più difficoltà a restare sul mercato del lavoro e 1 su 6 lascia il lavoro a seguito di una maternità, prevalentemente a causa di una scelta obbligata (assenza di strumenti di supporto alla cura o non accessibilità economica dei servizi disponibili). Questo trend non ha significative differenze territoriali: è più forte al centro nord dove le donne lavorano di più, è più sensibile al Sud dove le donne lavorano di meno. La situazione si fa più drammatica per quelle donne, tra i 30 e i 45 anni, che accanto a figli devono occuparsi anche di anziani o bisognosi – per i quali i servizi sono ancora più carenti o inaccessibili. Sono un segmento critico del mercato, una sandwich generation, schiacciata come in un panino da esigenze multiple di cura a cui l’attuale sistema di welfare non è in grado di rispondere.
- La precarietà dei non standard e delle donne che lavorano influisce su scelte di vita e di procreazione. In tutti i paesi europei in cui le donne lavorano si fanno più figli, mentre in Italia, a bassi tassi di partecipazione si associa il più basso tasso di natalità europea e la crescita demografica viene assicurata prevalentemente dalla componente straniera della popolazione.
A questo punto si può affermare che è questo lo scenario su è intervenuta la crisi?
Si ed ha avuto caratteristiche diverse a seconda dei mercati del lavoro regionali, della loro configurazione produttiva e quindi conseguentemente della presenza maggiore o minore delle donne in quegli ambiti. Ma in nessun caso si è trattato di eccezione alle regole prima esposte. L’ondata lunga della crisi, dopo aver colpito i settori industriali tipicamente maschili, ha investito poi il terziario dove invece è la presenza delle donne ad essere maggioritaria, con conseguenze ancora più negative. Due su tutte. Si tratta di settori e di dimensioni di impresa con una copertura parziale da parte degli ammortizzatori sociali ordinari e quindi molto dipendenti dalla deroga e dalla capacità di copertura finanziaria. Per i contratti atipici e flessibili, in cui le donne sono la maggioranza, inoltre, questa copertura è stata parziale. Laddove la disoccupazione è stata inevitabile, il tempo di permanenza nell’area del non lavoro per gli uomini è stato comunque più breve di quello delle donne. Quindi, le donne sono arrivate più tardi a perdere il lavoro, ma hanno più difficoltà a tornare sul mercato. E molte di loro, rischiano di non tornarvi più. Le cosiddette scoraggiate restano a casa, con probabile ingresso nel lavoro sommerso, soprattutto in quelle realtà in cui il secondo reddito diventa necessario al bilancio familiare, considerato il fatto che l’Italia è in Europa il paese con la più alta percentuale di uomini unici produttori di reddito familiare.
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