Studiare paga ma in Italia paga meno
Strumenti per la formazione
28.06.2012 – Lo sviluppo tecnologico determina un aumento della domanda di lavoro qualificato e del livello di istruzione della forza lavoro. Ma in Italia questo processo non appare sufficientemente dinamico. Il nostro sistema produttivo, infatti, stenta ad assorbire l’aumento, pur basso, dei laureati. Ciò produce un freno ai premi retributivi associati ai livelli di istruzione più alti. E’ uno degli aspetti che emergono con grande evidenza dal Rapporto Isfol 2012.
Si rileva, inoltre, un maggiore rendimento delle discipline scientifiche: limitatamente al solo lavoro dipendente, i laureati in ingegneria e in medicina percepiscono un reddito superiore al 10% rispetto alla media, mentre le lauree in discipline umanistiche e sociali e i laureati in lingue rendono oltre il 10% in meno. Tra i diplomi di scuola secondaria superiore il rendimento più elevato si riscontra per gli istituti tecnici, che garantiscono un reddito mediamente superiore rispetto ai licei e agli istituti professionali. Un’articolazione molto simile tra le discipline si rileva anche per il rendimento misurato in termini di occupabilità.
Coloro che hanno tra i 25 e i 34 anni sono maggiormente penalizzati in termini di basso rendimento del titolo di studio universitario. Tra i paesi Oecd l’Italia si caratterizza per un’elevata distanza tra le retribuzioni medie della componente più giovane e di quella più anziana: la progressione salariale nel nostro paese è determinata soprattutto dall’anzianità lavorativa e in misura minore dal livello di scolarizzazione. Tale elemento contribuisce a disincentivare l’investimento in istruzione dei giovani.
Una parte delle differenze del rendimento dell’istruzione terziaria rispetto all’età sono riconducibili alle modalità contrattuali di ingresso nell’occupazione della componente giovanile e alla segmentazione del mercato del lavoro italiano, che vede da un lato la maggior parte degli occupati in età centrale e avanzata caratterizzata da forme di contratti standard ed elevate tutele e dall’altro i più giovani che presentano elevati livelli di flessibilità contrattuale e un reddito sistematicamente inferiore. Considerando il solo lavoro dipendente si osserva che la differenza del salario medio tra lavoratori permanenti e lavoratori temporanei tende a crescere con l’età. Parallelamente l’incidenza del lavoro a termine presenta valori elevati per le classi di età più giovani, raggiungendo il 18 % tra i 25-34enni e il 26,5 % tra i soli laureati nella stessa classe di età. Il minor rendimento dell’istruzione terziaria per i giovani è dovuto anche a questa maggior incidenza tra i giovani di contratti di lavoro a termine.
Un altro fattore che incide sul rendimento dell’istruzione è il profilo della famiglia di origine. Le persone con un background familiare non elevato presentano, infatti, maggiori difficoltà nell’ottenere occupazioni in linea con il titolo di studio posseduto. L’Italia, che presenta rendimenti dei titoli di studio universitari contenuti, si caratterizza già da molti anni anche per una certa inerzia nella mobilità sociale, che tende ad attenuare l’aumento dei premi salariali associati a titoli di studio elevati.
Tra gli occupati in posizioni apicali (legislatori, dirigenti e imprenditori) il minore rendimento della mobilità ascendente è particolarmente evidente: chi proviene da una famiglia con almeno un genitore al vertice della tassonomia professionale guadagna circa il 30% in più rispetto a chi, al contrario, aveva un background familiare più modesto.
Chi sceglie di investire nel proprio percorso formativo, conseguendo un titolo di studio terziario, ha prospettive di reddito certamente più elevate rispetto a chi entra nel lavoro al termine dell’obbligo formativo o con un titolo di istruzione secondaria. Tuttavia il premio retributivo associato all’istruzione terziaria è sensibilmente minore in Italia rispetto ad altri paesi europei. Si rischia così un circolo vizioso: il basso livello di capitale umano introdotto nel sistema produttivo non è sufficiente a spingere verso l’alto i livelli di produttività. Ed infatti la produttività del lavoro è rimasta sostanzialmente invariata in Italia nel periodo 1998-2007 e diminuita nel triennio di crisi economica, a fronte di un aumento riferito alla media comunitaria di oltre 13 punti percentuali nel periodo 1998-2011.